Long as I remember the rain been comin' down. Clouds of mystery pourin' confusion on the ground, good men through the ages tryin' to find the sun. And I wonder, still I wonder, who'll stop the rain?”
Sappiamo tutti che la curva dell’attenzione ha un suo excursus e che essa cala velocemente al passare del tempo. Gestire attività routinaria, assistere a presentazioni o ad eventi noiosi e ripetitivi, sono piccole torture professionali alle quali ci sottoponiamo sempre meno volentieri. Tutti i migliori professionisti (ricercatori, comunicatori, formatori) che comunicano ai propri pubblici lo sanno. Molti bravi colleghi in aziende ed istituti cercano di tenerne conto e anche noi di Research Dogma nel nostro piccolo, cerchiamo di allinearci alle migliori pratiche.
Il declino della curva di attenzione vale per tutte le attività che richiedono un impegno cognitivo elevato. In molti siamo abituati a lavorare per più ore su un dato task senza concederci pause perché ci sentiamo performanti. È un’illusione?
Ni. Da un lato infatti, quando usciamo dalla zona di massimo rendimento – l’apice della curva – per un po’ ci vengono in aiuto alcuni ormoni quali il cortisolo, l’adrenalina. Poi però scivoliamo inesorabilmente nella zona di stress. Spesso non ce ne rendiamo conto, assorbiti come siamo dalla nostra attività, ma le nostre performance calano drasticamente.
Dall’altro è ormai ampiamente dimostrato che le nostre performance sarebbero più elevate se interrompessimo ciò che stiamo facendo dopo un po’ di tempo (sui tempi c’è ancora dibattito, ma, ad essere assai generosi, non dovrebbero superare i 50 minuti), ci concedessimo un break, cambiassimo attività, per poi tornare su ciò che stavamo facendo o su qualcos’altro che richiede impegno. Il cervello ci verrebbe decisamente in aiuto, perché gli abbiamo dato il tempo per tornare nella zona di rendimento. E il risultato finale sarebbero performance migliori.
Alcune organizzazioni, hanno cominciato a capirlo e incentivano i break, le pause. Molte fanno ancora fatica ad accogliere questa evidenza. Vedere dipendenti e collaboratori che si rilassano, chiacchierano, si prendono un caffè, o si dedicano ad altre attività (una telefonata personale, un’occhiata a un giornale o ai social …), fa sì che essi siano giudicati in maniera un po’ riprovevole da vari punti di vista.
Il team di Research Dogma è appassionato di neuroscienze e di persone e si occupa di ricerca sulle performance e motivazione delle persone in azienda. Nelle sue analisi sta anche esplorando come organizzazioni e persone vivono e affrontano il tema. Da queste analisi emerge chiaramente la presenza di resistenze alla possibile adozione di uno schema comportamentale più orientato all’efficacia che al mito dell’efficienza lavorativa fatta di resistenza ed impegno continuo per periodi lunghi (scelta possibile, certamente non obbligata).
Interessante notare come le resistenze vengano sia dalle persone che dalle organizzazioni:
1) in primis, le persone stesse faticano a staccare quando sono dedite a un compito. Esso richiede infatti un cambio di routine, che all’inizio implica auto-disciplina. Non è infatti facile rompere con abitudini consolidate – provate! – ma è fattibile adottando delle piccole strategie (es. mettere un timer che aiuti a ricordare quando concedersi un break) e sviluppando il “coraggio” d’interrompere ciò che si sta facendo
2) anche se il tema del time management è stato oggetto negli ultimi decenni di tantissima formazione, spesso le persone faticano di fatto a costruirsi nel day by day una scala di priorità, correndo un po’ disordinatamente da una cosa all’altra, stressandosi. Autorevoli esperti sostengono che una buona partenza (quindi anche un tempo dedicato al mattino su ciò che ci aspetta), sia la condizione migliore per essere poi più veloci
3) dal lato delle imprese, tanti Manager sono caratterizzati da un mindset nel quale tempo dedicato al lavoro e produttività vengono strettamente correlati. Non è certo un tema nuovo, ma è evidente che l’adozione di uno schema orientato “all’efficacia” richiede che si rompa questa equivalenza complessa (così definita in PNL), e che si effettui uno switch in cui il focus sia sull’ottenimento del risultato finale nel tempo concordato, prescindendo – nei limiti del possibile – dalla gestione del tempo scelto dalle risorse umane per dedicarsi al compito
Anche se può suonare spiacevole e un po’ provocatorio, il Covid nel 2020 ci ha spesso costretti ad affrontare gli ostacoli citati, portandoci a lavorare al di fuori delle nostre comfort zone. Sappiamo quindi di essere in grado di superarli. Se ci vogliamo provare o meno è, come già detto, una questione di scelte comunque rispettabili.
Saremo lieti se vorrete condividere con noi le vostre riflessioni. Nel frattempo Research Dogma continuerà a osservare, studiare e a raccontarvi le news sull’argomento.
Per chi fosse interessato ad un piccolo approfondimento, l’articolo sotto riportato dimostra in maniera “neuro-scientifica” cosa accade nel caso una persona debba affrontare un meeting via l’altro. E come cambiano le cose se tra i vari meeting vengono introdotte delle pause. Qui il tempo dei meeting considerato ottimale è stimato in circa 30′, e le pause in circa 10-15’. Ma quanti di noi passano da un incontro all’altro senza soluzione di continuità? Possiamo fare meglio per noi e per il lavoro nostro e dei nostri colleghi? Forse sì.
https://corporate-rebels.com/brain-research/
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